Dalla piana di Clusone alla Malga Lunga

Questo itinerario ripercorre la parte finale del percorso di ritorno, il cui clima è ben descritto dal testo di Brach sotto riportato, dopo il periodo di tranquillità trascorso in alta val Seriana dalla 53a brigata Garibaldi. L’andata è descritta nell’itinerario 18, percorso in direzione opposta a quella descritta il 31 dicembre 1944, quando i partigiani non sentendosi più sicuri nemmeno in alta valle Seriana, rientrarono sulla val Cavallina.

Dalla piana di Clusone e Rovetta, si sale verso il monte Fogarolo, si piega verso il Pianone e si raggiunge la Forcella Ilaria, alla falde del pizzo Formico, dove ancora esistono i ruderi della capanna Ilaria. Da lì, si raggiungono i Morti della Montagnina e si scende al Campo d’Avene e poi alla Malga Lunga.

 

Località di partenzaSan Lorenzo di Rovetta, 588 m
Località di arrivoMalga Lunga, 1230 m
Segnavia508 - 545
Tempo di salita3 h 30'
Ripari
Acquano
CartinaKompass n.104; Cai-Provincia n. 6 - 5

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Nei pressi del parco comunale di san Lorenzo a Rovetta (zona industriale di Vogno, indicazioni “eliporto”), si imbocca la stradetta che risale la val Gavazzo, inerpican­dosi sui contrafforti settentrionali del monte Fogarolo, difronte all‘altopiano di Clusone e alla bastionata della Presolana. Troviamo subito, vicino a una bacheca con la cartina dei sentieri dell’Altopiano, le in­dicazioni per l’alpe Fogarolo (1 h 40’). La carreggiabile sale a tornanti nel bosco superando la cappelletta di san Loren­zo e diverse baite e roccoli ben ristrutturati.

Raggiunta l’indicazione per la cascina Succo Martino, si devia a destra attraversando i pascoli per raggiungere prima quella cascina e poi la località Pianone (1142 m). Attraversata la conca prativa davanti al grande edificio, nei cui pressi si vedono ancora i resti di impian­ti sciistici, si comincia a salire nel bosco seguendo il segnavia 508. Dopo un tratto iniziale più ripido, il percorso si addolcisce salendo in quota con molta gradualità e costeggiando i contrafforti del monte Fogarolo. Giungiamo alla Forcella Larga, spartiacque tra i comuni di Clusone e Gandino, dove sono visibili i resti della ca­panna Ilaria e l’artistica campana di recen­te costruzione (1470 m). Dalla Forcella, a circa mezz’ora di cammino si trova la vetta del pizzo Formico (1637 m), con un panorama a 360°. Scendendo sulla sinistra della Forcella, si raggiunge la visibile Tribulina dei Morti della Montagnina (1483 m). Anche da qui si può fare una breve digressione per raggiungere il cucuzzolo con il rifugio Pa­rafulmine (1536 m, tel. 3299634386, www.rifugioparafulmine.it). Dalla Tribulina si imbocca il sentiero 545 che scende al Cam­po d’Avene: la prima parte del sentiero attraversa una zona di curiosi pinna­coli, sfasciumi e ghiaioni, per poi addolcirsi in un bel bosco.

Raggiunta la baita bassa di Campo d’Avene, immersa in un amplissimo pascolo, si prosegue in piano su strada carrozzabile verso la pozza della “crus”. Si lasciano a sinistra le indicazioni per la baita Monte Alto, già sede del comando della 53a brigata Garibaldi e ora rifugio del Cai val Gandino (tel. 333.6043319 - tel. 333.2562318) e si prosegue sulla strada che con brevi saliscendi attraversa un bel bosco di conifere. Una staccionata costruita con traversine di rotaie ci segnala che stiamo per raggiungere la meta: sotto di noi sono visibili le case di Valpiana. Proseguiamo sbucando sulla strada asfaltata che sale da Valpiana, oltrepassiamo il sentiero che ne costituisce la scorciatoia e in pochi minuti in piano siamo alla splendida balconata della Malga Lunga.

Sulla via del ritorno, è possibile completare un percorso ad anello con il sentiero 508 che porta dal Campo d’Avene alla baita Fogarolo senza ripassare dalla Montagnina e dalla capanna Ilaria.

Gnocchi di ghiaccio alla capanna Ilaria

Dopo aver passato il Natale del 1944 al rifugio Curò, ospiti della brigata Camozzi di Bepi Lanfranchi, i partigiani della 53a brigata Garibaldi, temendo rastrellamenti, decisero di rientrare in val Cavallina.

“Fossero vere o meno le notizie, si ritenne opportuno lasciare quel luogo poco adatto, data la neve e il ghiaccio, per una difesa ed un possibile sganciamento in caso di attacco. Decidemmo perciò di far ritorno alle nostre zone e di cercare ognuno un rifugio più sicuro. E così, all’alba del 31 dicembre, ultimo giorno dell’anno 1944, scendemmo a Bondione con la piattina. Quando salivamo non ci rendevamo conto dell’impressione che faceva la discesa, tanto ripida, con quel mezzo di trasporto. Sembrava di scendere dalle nuvole. “Bibi”, non abituato ancora ad essere trasportato con altri mezzi all’infuori delle sue gambe e delle mie spalle, non volle salire, evidentemente per paura, e ci seguì, camminando appena dietro, sul binario.”

Per tutto il giorno il gruppo camminò sulla strada della val Seriana, cercando di non dare nell’occhio: Maslana, Valbondione, Fiumenero, Gandellino, Gromo, da qui risalendo una parte della Val Canale, poi scendendo ad Ardesio e Villa d’Ogna, per evitare di passare dal Ponte delle Seghe dove vi era un posto di blocco dei fascisti della GNR. Nella Pineta di Clusone, il cagnolino “Bibi” segnalò una pattuglia fascista. Dopo un momento di tensione, evitato lo scontro, i partigiani ripresero il cammino.

“Mancando i sentieri, si procedeva con grande difficoltà. Il nostro punto di riferimento era il Pizzo Formico. Camminavamo in fila indiana e nessuno diceva una parola. Si avvertiva in tutti un grande sforzo nel sopportare la fatica. A turno si apriva la pista. Renzo faceva più fatica di tutti, e a un certo punto, subentrò in lui un momento di scoraggiamento. Non voleva più camminare. Caricammo sulle nostre spalle anche il suo zaino e le sue armi e lo incoraggiammo a proseguire. Via via che la stanchezza aumentava, il cammino si faceva più faticoso, i passi sempre più lenti e il fiato più corto. Wolf, che era sempre in vena di scherzare, aveva la faccia rigata di lacrime. L’alito che usciva dalla bozza si condensava in ghiaccio ed era visibile su quelli che portavano i baffi e la barba.

Partigiani in trasferimento in Val Piana verso la Malga Lunga (Archivio ANPI Lovere).

Arrivammo alla capanna Ilaria alle ore 2 del primo dell’anno. Le sorprese non erano finite. Il rifugio era stato bruciato dai fascisti durante un rastrellamento. Sapemmo più tardi che era stato bruciato il giorno stesso che noi avevamo lasciato la zona per portarci in Valle Bondione. Si era salvato solo un angolo ancora coperto dal tetto dove, spinti dalla stanchezza e dalla fame, alcuni si sdraiarono immediatamente, tirandosi addosso la loro coperta piena di pidocchi. Il cammino era durato 18 ore. Quel poco di stracchino che ci aveva dato Ravaglia era stato divorato nel corso della lunga marcia, I piedi erano bagnati dalla neve che entrava dappertutto, bagnati erano anche i calzoni e tutto il corpo, mano mano che si raffreddava, era percorso da brividi di freddo. Bisognava accendere il fuoco. Raccogliemmo le assi e la legna rimasta dalla devastazione, collocammo il tutto in un cantuccio e la legna cominciò ad ardere. Una cosa tira l’altra. Peccato, disse uno, che non c’è niente da mangiare. Mi venne in mente di avere nello zaino un chilo circa di farina bianca che poteva servire a qualcosa. Brasi disse di avere una scatola di “Mundus”, una specie di sugo con dei sottaceti il cui involucro si era persino arrugginito, tanto doveva essere vecchia, e con questi ingredienti si decise di far gli gnocchi.

Mentre gli altri dormivano, ci demmo subito da fare. Recuperammo un secchio terribilmente arrugginito, una mezza porta bruciacchiata che doveva servire da piano per l’impasto della farina. Con la stessa procedura messa in atto al Curò facemmo bollire la neve. Pulimmo alla bell’e meglio il secchio, mentre Filava provvedeva all’impasto della farina. L’operazione non era delle più facili con quei mezzi rudimentali. La farina impastata su quella tavola di legno aveva assunto un colore che tirava al nero. Cotta che fu la pasta, la scolammo lasciando gli gnocchi nel secchio e versandovi poi sopra il contenuto della scatoletta. Il risultato fu disastroso, Gli gnocchi erano immangiabili, rovinati dal “Mundus” il cui liquido era pestifero per non dire velenoso. Indescrivibili erano quei momenti. Proprio quando il desiderio si faceva più intenso, al momento di cogliere il frutto di un lavoro costato fatica e che si vedeva andare tutto in fumo, subentrava lo sconforto che, unito alla fame, al sonno e alla stanchezza, diventava rabbia, delusione, ribellione.

Non ci demmo per vinti. Gettammo neve nel secchio per farla sciogliere e con l’acqua ricavata lavammo gli gnocchi due o tre volte fino a togliere il maleodorante profumo del “Mundus”. A quel punto, però, gli gnocchi non sapevano più di niente, anzi, erano diventati pezzi di pietra. Dopo questo risultato ritenemmo utile non svegliare nessuno per mangiare. A fatica ne ingoiammo tre o quattro e poi ci unimmo a coloro che stavano dormendo. Al mattino gli gnocchi che avevamo lasciato sulla tavola apparivano ai nostri occhi come un solo blocco di ghiaccio. Era debilitante guardare tutto quanto ci rimaneva per combattere la fame. Comunque non vi era altro da fare che dividere gli gnocchi in parti uguali e ognuno poi si sarebbe regolato nel modo in cui preferiva. La mia parte la misi in una tasca e, durante il cammino, ogni tanto ne prendevo uno, facendolo disgelare con il fiato prima di ingoiarlo Si trattava ancora di camminare”. 

Giuseppe Brighenti, Il partigiano Bibi, Walk Over, Bergamo, 1983, pp. 54, 56-57.